La moda, il genderless e la nostra continua voglia di etichettare tutto

E’ la tendenza del momento, ma forse non è niente di più che la ricerca di un’essenzialità che abbiamo perso

Quando andavo alle scuole superiori la “divisa” d’ordinanza per noi ragazze era: jeans e camicia fuori dai pantaloni, meglio se da uomo. Sto parlando di circa 20 anni fa e non pensavo di essere certo un precursore della moda genderless, francamente non pensavo nemmeno il mio vestire potesse essere interpretato come un manifesto per la rottura delle differenze di genere.

Stavo solo cercando di nascondere il più possibile le mie forme e di rendermi quasi invisibile, come fanno tutti gli adolescenti. Passiamo una fase della nostra vita in cui è più facile infagottarci che mostrarsi. Ed ecco perchè abbiamo la necessità di vestirci tutti uguali, infagottati il più possibile.  Questa cosa non è cambiata oggi: osservare classi intere di ragazzi e di ragazze significa guardare giovani che sono vestiti in maniera praticamente identica. 

genderless h&m

Gli abiti ci rassicurano, il nostro modo di vestire dice molto di noi. Stamani leggevo sul Corriere della sera un articolo sulla nuova tendenza che sta animando le nostre vite: la svedese Lagom.

In svedese Lagom significa “nella giusta dose”, né troppo né troppo poco. Una tradizione popolare piuttosto diffusa vuole che all’origine del termine ci sia l’espressione “lagetom”, usata dai vichinghi per indicare la quantità giusta di idromele da bere prima di passare al vicino di tavolo il corno usato come bicchiere comune”.

La moda genderless è un attributo che viene dato alla moda per rispondere a questa tendenza alla semplicità, che quindi elimina le differenze. Non è una presa d’atto della mancanza di differenze dei nostri generi, non è la filosofia gender che ha creato il modo di vestire, ma è un’etichetta che i brand come Zara hanno cercato di mettere a una tendenza in atto.

E poi, come sempre, arrivano le polemiche. Il genderless offende la femminilità, sono stati scritti fiumi di parole su questa cosa.

Con i miei jeans e la camicia di mio fratello offendevo la mia femminilità? nemmeno per sogno. Secondo me la mia femminilità era offesa molto di più da stilisti che proponevano un’immagine della donna solo come un oggetto di desiderio, sexi e ammiccante. Le donne erano quelle di “Drive in”, formose e stupide, mute presenze che assistevano il presentatore di turno. Ancora si faceva poco ricorso al bisturi, ma la strada era ormai tracciata. La moda è fatta di corsi e ricorsi, come la storia, e quindi è tornato anche quel modo di vestire. Ai miei tempi era nato per disintoccarsi dagli eccessi degli anni Ottanta, adesso per prendere le distanze dal “troppo di tutto”.

Genderless significa comodità, ma anche ricerca di essenzialità. Adesso è questa secondo me la vera tendenza: nauseati dal “troppo” in ogni campo della nostra vita, c’è un ritorno e una voglia a quello che è essenziale. Si può scegliere di vestirsi in modo vistoso se ci fa stare bene, si possono indossare tacchi o scarpe da ginnastica. Si può essere un giorno sexi e un giorno sportiva, non ci sono regole.

Poi è anche sicuramente un fattore culturale: fare leva su quello che ci rende uguali piuttosto che su quello che ci rende diversi. Non è successo così negli anni in cui tutti si vestivano etnico, con abiti indiani dai colori sgarcianti? quel modo di vestire non era altro che un mezzo per esplorare una cultura diversa.

Allora viva il genderless, se ci aiuta a parlare di questi temi. Ma facciamolo con intelligenza, per favore.

 

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