Ma il tech è davvero un settore solo da uomini?

Il tech? una cosa da uomini. Un allarme che non riguarda solo l’Italia, che su certi temi non si è nemmeno messa in moto. La protesta arriva dagli Stati Uniti, dalla Silicon Valley per la precisione. Proprio qui infatti si registra un forte sessismo, con troppi uomini impegnati in ruoli dirigenziali e di programmazione, mentre le donne sono presenti per lo più nel ruolo di segretarie e assistenti. Ma il tech è davvero un settore solo da uomini?

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Milano, record di donne al lavoro. Ma il boom è legato all’avanzata delle precarie

Questa mattina il Corriere della Sera ci ha accolto con una grande notizia: “gli ultimi dati Istat sugli incrementi di occupazione (novembre 2015-novembre 2016) segnalano una chicca: le nuove occupate sono 160 mila contro 41 mila uomini”, ha annunciato Dario Di Vico con un articolo davvero molto interessante. L’articolo non era dedicato a questo dato, ma al caso straordinario di Milano, che ormai vanta tassi di occupazione femminile simili a quelli del nord Europa.

Solo che, se ogni medaglia ha due facce, io non mi trovo proprio d’accordo con questa lettura entusiastica di Di Vico. Donne record al lavoro: benissimo, ma quale tipo di lavoro? La qualità del lavoro conta e quando si parla di qualità del lavoro si deve parlare anche di garanzie. E qui, secondo me, la lettura di Di Vico è discutibile.

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La parità di genere? la raggiungeremo nel 2095

Le disparità tra uomini e donne hanno ormai una data di scadenza: nel 2095 potremo vivere in una società nei quali abbiamo tutte le stesse opportunità. Non sono certo io a dirlo, ma il Global Gender Gap Report (qui in integrale), il rapporto sulla disparità di genere pubblicato dal Global Gender Gap Report.

E come avverrà questa evoluzione? garantendo un accesso al lavoro uguale per tutti, prevedendo la spartizione del lavoro di cura all’interno della famiglia, sviluppando le capacità delle donne di essere pienamente produttive e lasciando che gli uomini scoprano una sfera di lavori fuori dall’ufficio dai quali fino ad oggi sono stati esclusi o quasi. Insomma, la parità si costruirà su un nuovo modo di essere donna e un nuovo modo di essere uomo.

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Le donne inarrestabili di Diyarbakir

Due anni fa, seguendo un progetto di cooperazione europeo, sono arrivata a Diyarbakir. Era una località sconosciuta, non sapevo quello che mi aspettava. Quando sono arrivata di Diyarbakir sapevo due cose: che è la zona della Turchia dove si produce più cotone e che è famosa per essere la città dalla “mura nere” (ha una cinta muraria antichissima seconda solo alla muraglia cinese).

Così, molto inconsapevole, sono arrivata a Diyarbakir, con un gruppo di imprenditori italiani. E’ bastato scendere dall’aereo per capire che quella città, magari sconosciuta, era in realtà un posto che aveva molto da raccontare. L’aeroporto è un aeroporto militare e sulle nostre teste, durante tutta la giornata, volavano MIG per sorvegliare il pericoloso confine. E poi Diyarbakir è una città curda, un popolo senza pace, che ha una identità fortissima ma che non ha terra.

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sulla strada per Diyarbakir

Ad accoglierci c’era una donna, consigliere della Camera di Commercio locale. Un segnale importante, per un territorio che proprio sull’inclusione delle donne voleva puntare il proprio rilancio. Ci ha raccontato dell’impegno per portare le donne al lavoro, nelle numerose confezioni che ci sono nella zona. Portare le donne al lavoro, fuori di casa, aiutarle a emanciparsi, era un obiettivo fondamentale per far sviluppare un territorio dove ormai vivevano più di un milione di abitanti.

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Lavoro e compromessi: per le donne due facce della stessa medaglia. Soprattutto dopo i 40

M. è una donna brillante, con una solida carriera alle spalle, una bella esperienza che l’ha portata a girare il mondo e a confrontarsi con aziende grandi e piccole. Ma questo non basta: il suo lavoro si sta facendo precario e sta scendendo a compromessi sempre maggiori. Il suo curriculum non basta più, a 40 anni trovare un nuovo lavoro per una donna può essere davvero molto complicato. E il suo datore di lavoro lo ha capito.

Una storia che si ripete. Contratti a tempo determinato, collaborazioni, la precarietà a 30 anni non fa paura. Poi arrivano i 40, hai bisogno di mettere qualche punto fisso, inizi a pensare ai contributi versati, al futuro. Avresti dovuto pensarci prima, ma ti sentivi molto sicura di te, sapevi che ce l’avresti fatta. A 30 anni la precarietà sembra una strada affascinante che ti regala una via d’uscita. A 40 anni è invece un sentiero che guardi con preoccupazione. Almeno che non trovi la forza di rimettere (di nuovo) tutto in discussione.

Il datore di lavoro di M. questo lo sa bene: sa che può tirare la corda, rimettere in discussione le condizioni del lavoro, farle fare qualche viaggio in più, chiederle di prendere la partita IVA. M. ha paura di non trovare un nuovo lavoro con gli stessi benefit, perché alla fine il suo è ancora un incarico importante che le permette di portare a casa un bello stipendio. Ma pensavo che con il passare del tempo il suo lavoro si sarebbe fatto più sicuro e non certo ancora più precario. Alla fine lei dipende da quell’uomo, dalla sua volubilità: da un giorno all’altro potrebbe mandarla a casa.

E il suo curriculum in un mondo studiato per dare (giustamente) opportunità e agevolazioni ai giovani e alle loro assunzioni, ha ben poco da spazio da dedicare a una 40enne, anche se piena di talento e di esperienza.

Forse chi vive nelle grandi città questa cosa si avverte meno, la mobilità fa meno a paura a Milano o a Roma, si ha l’impressione che ci siano più opportunità di cogliere. Ma chi vive in una città di medie dimensioni non ha molte opzioni. La parola d’ordine resta compromesso, un mantra per le donne più o meno in carriera.

“Ci serve il tuo stipendio”

Ieri sera sono andata a vedere il film dei fratelli Dardenne “Due giorni, una notte”. Il tema centrale e’ la precarietà, ma quelle che mi sono rimaste impresse nella testa sono le parole del marito a Sandra, la protagonista: “devi lavorare, ci serve il tuo stipendio”. Sandra e’ una giovane madre che sta per perdere il lavoro, a meno che i suoi colleghi non rinuncino a un bonus e votino per tenerla. Non vuole chiedere favori a nessuno vuole mantenere la sua dignità, ma il marito le dice che non ha scelta, che deve parlare con tutti i suoi colleghi, perché il suo stipendio serve.
Ecco, questa e’ la condizione in cui vivono oggi le donne: il nostro lavoro e’ necessario per mandare avanti la famiglia, ma viviamo in un paese che troppo spesso tratta il lavoro delle donne come un’occasione di promozione sociale, un modo per non stare in casa, per condividere esperienze. Come se fosse ancora oggi una scelta possibile quella di andare o meno a lavorare. Invece per molte di noi è una necessità primaria, solo che la politica non se ne accorge e non fa niente per agevolare sul serio il nostro inserimento nel mondo del lavoro. Basta vedere l’immagine che si è creata dell’imprenditrice femminile, raccontata come una donna che lavora per realizzare il suo (piccolo) sogno. Ma i sogni delle donne magari sono altri, forse non lo sappiamo bene nemmeno noi, perché siamo sempre più schiacciate dalla responsabilità di un lavoro che ci serve e non per gioco.