Milano, record di donne al lavoro. Ma il boom è legato all’avanzata delle precarie

Questa mattina il Corriere della Sera ci ha accolto con una grande notizia: “gli ultimi dati Istat sugli incrementi di occupazione (novembre 2015-novembre 2016) segnalano una chicca: le nuove occupate sono 160 mila contro 41 mila uomini”, ha annunciato Dario Di Vico con un articolo davvero molto interessante. L’articolo non era dedicato a questo dato, ma al caso straordinario di Milano, che ormai vanta tassi di occupazione femminile simili a quelli del nord Europa.

Solo che, se ogni medaglia ha due facce, io non mi trovo proprio d’accordo con questa lettura entusiastica di Di Vico. Donne record al lavoro: benissimo, ma quale tipo di lavoro? La qualità del lavoro conta e quando si parla di qualità del lavoro si deve parlare anche di garanzie. E qui, secondo me, la lettura di Di Vico è discutibile.

Innanzitutto questo è il link all’articolo, se ancora non l’avete letto: Milano, record di donne che lavorano. A Milano lavorano il 64% delle donne, un dato incredibile misurato sullo standard italiano. Bene, sono felice. Ma vado avanti nella lettura e il sorriso è meno convinto.

Cosa fanno queste donne?

Le milanesi che lavorano si dividono in tre gruppi: più di un terzo (il 36%) sono delle professionals, la platea più numerosa (47%) è composta da diplomate 50enni che svolgono un lavoro impiegatizio o tecnico, il rimanente 18% viene definito unskilled, donne in buona parte in età matura, spesso straniere, che svolgono lavori non qualificati nei servizi alla persona, nelle imprese di pulizia e nella grande distribuzione.

Le “professionals”: un modo figo per dire che sono delle precarie, con partita Iva, una bella laurea e la fortuna di poter gestire autonomamente la propria vita. Questo ce lo spiega più avanti Di Vico. Le 50enni che invece fanno un lavoro impiegatizio sono quelle donne fortunate che hanno potuto avere contratti a tempo indeterminato, la fascia d’età ce lo dimostra. Le più giovani fanno le “professionals”, una bella conquista. A ognuno di noi piace essere padroni del proprio tempo, non sapere se e quante entrate arriveranno nel mese, mettere al mondo dei figli senza sapere che futuro garantirgli perchè il lavoro potrebbe mancare a un tratto. Già, ma le professionals i figli non li fanno, sono singles, questo Di Vico ce lo racconta più avanti.

E infatti le novità milanesi ci proiettano nella sociologia della famiglia: è il tramonto del maschio che portava lo stipendio, fulcro del vecchio mercato del lavoro. Milano comincia ad avere tassi di occupazione europea grazie anche alle partite Iva al femminile e mostra una nuova propensione per il lavoro indipendente di fascia alta, una maggiore flessibilità per la conciliazione famiglia/lavoro e la voglia di sottrarsi ai meccanismi rigidi di carriera aziendali (che ancora privilegiano gli uomini).

Per qualcuno sarà anche valido questo discorso e le donne saranno anche contente di sottrarsi alla carriera (perchè poi? non è normale aspirare a sicurezza e riconoscimento per ogni persona?). Io però credo che ormai siamo tutti più poveri, che ognuno cerca di arrangiarsi come può. Credo che se hai studiato e nessuno ti vuole assumere o ti offre qualcosa di diverso da tirocini infiniti che poi diventano apprendistato e poi finiscono e basta, ecco se vuoi sottrarti da tutto questo, che fai? prendi la partita IVA e ci provi, cerchi di organizzarti, certo non felice di conciliare famiglia e lavoro, perchè lavorare senza vincoli significa anche non avere garanzie e significa anche che nessuno è vincolato a darti uno stipendio.

E l’indagine ci dice che questa è la tendenza che ormai sta coinvolgendo le giovani donne e anche le meno giovani.

Sono troppo polemica? voi trovate positiva questa lettura della “professional” (che nome orribile) felice?

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